Il riassunto di Neuromarketing, di Martin Lindstrom

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N.B. Questo riassunto – anche se molto dettagliato – non vuole sostituirsi al libro “Neuromarketing” scritto scritto da Martin Lindstrom, ma fornire agli utenti interessati le motivazioni necessarie all’eventuale acquisto.
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C’era una volta, in Danimarca, un bambino incredibilmente appassionato di Lego. Non si limitò a costruire una enorme casa di Lego nel proprio giardino di casa. Non si limitò a inaugurarla con una vera e propria festa – alla quale, purtroppo, parteciparono solo i suoi genitori. Fece di di più: contattò un’agenzia pubblicitaria affinché promuovesse la sua amatissima costruzione. E, strano a credersi, l’agenzia pubblicitaria accorse. La notizia, pubblicizzata, arrivò fino alla Lego, la quale contattò la famiglia del bimbo, dicendo che quella situazione doveva finire, in quanto, in fin dei conti, quei mattoncini erano pur sempre protetti dal marchio ‘Lego’. Il bambino, disperato, non capiva: quei giocattoli erano suoi, la casetta nel giardino era sua, i Lego erano suoi!

Fu un trauma. Ma fu anche il momento in cui il bambino imparò a conoscere la differenza tra prodotto e brand. Da un punto di vista strettamente emotivo, si potrebbe dire che quel bimbo non sia mai effettivamente uscito da quella piccola casetta costruita in giardino. Da un punto di vista professionale… beh, quell’episodio fu la scintilla che lo portò ad essere quello che è oggi, ovvero – stando al Time Magazine – uno dei 100 uomini più influenti al mondo. Parliamo ovviamente di Martin Lindstrom, consulente di branding e vero e proprio cultore a livello internazionale di neuromarketing.

Chi si occupa di marketing e di comunicazione, beh, non può assolutamente non conoscere il suo nome. E non può non conoscere i suoi preziosi libri, primo fra tutti il famosissimo Buyology, tradotto in Italia – perdendo così un po’ del fascino del titolo – in ‘Neuromarketing: attività cerebrale e comportamenti d’acquisto’. Questa opera fondamentale risponde a un’unica grande domanda, ovvero: perché acquistiamo una cosa piuttosto di un’altra? Un quesito ostico, che tutti quelli che vogliono convertire dei semplici utenti in clienti si sono posti, più o meno coscientemente, migliaia di volte.

Nel suo libro Lindstrom racconta tantissime storie su come il nostro cervello, guidato dalle emozioni e dalle strategie di branding, compie le sue azioni di acquisto. Sì, lo so: tu che gestisci un e-commerce, tu che crei i contenuti per il tuo sito aziendale, tu che stai costruendo una nuova strategia di marketing, vorresti davvero tanto, tantissimo leggerti questo libro, e imparare quali sono i contenuti che possono davvero catturare l’attenzione dei tuoi clienti. Forse, però, pensi di non avere tempo di leggerti le quasi 250 pagine dell’edizione italiana.

Ti do allora due consigli. Il primo, spassionato, è quello di ritagliarti del tempo per leggere questo libro nella sua forma completa. Prima di andare a dormire, mentre stai andando a lavoro in metro, in spiaggia, nella pausa pranzo, in bagno, qualsiasi momento è buono per leggere le prime pagine di questo libro: vedrai che, spinto dall’entusiasmo, da lì in poi non avrai più difficoltà per trovare del tempo da dedicare alla sua lettura.

Il secondo consiglio è, invece, quello di leggere subito questo riassunto di Neuromarketing. Il motivo è semplice: non ti ruberà molti minuti, e così, ottimizzando al massimo il tuo tempo, potrai usufruire fin da subito delle tecniche suggerite da Lindstrom, senza dover attendere di leggere il libro nella sua completezza. E magari, anche tu, come è già successo a me molti anni fa, resterai sconvolto dalla potenza degli studi di Lindstrom e, finito il mio articolo, correrai in libreria a comprarti il suo libro.

Questo, però, lo potremo scoprire solo alla fine. Per ora, ti auguro una buona lettura del mio riassunto di Neuromarketing, di Martin Lindstrom!

Il riassunto di Neuromarketing, di Martin Lindstrom

Lindstrom, nel suo libro, esordisce spiegando come le ricerche di mercato che noi tutti conosciamo non possano che essere inaffidabili e imprecise. I risultati di queste attività sono ingannevoli e spesso illusorie, ma non per una mancanza della disciplina in sé o per colpa dei metodi usati, quanto invece per la scarsa attendibilità dei consumatori. Se dunque una ricerca di mercato si basa sull’opinione dichiarata da parte dei consumatori, beh, quell’indagine non può che essere in buona parte fallace già in partenza, fin dal principio. Questo perché, come spiega Lindstrom, non siamo in grado di spiegare in modo sincero e veritiero quello che pensiamo riguardo a un prodotto, e quindi non possiamo nemmeno dare delle risposte certe su come ci comporteremo in seguito.

Vuoi un esempio per capire quanto il nostro cervello sia ingannevole? Beh, nel libro di Lindstrom ci sono molti, moltissimi studi che avvalorano le sue ipotesi, e nel mio riassunto di Neuromarketing ti riporterò alcuni dei più significativi. In questo primo caso, l’esperto di branding cita uno studio su dei fumatori e condotto attraverso dei test di risonanza magnetica funzionale: i volontari, cioè, sono stati collegati ad un apparecchio di imaging biomedico per controllare le reazioni che il loro cervello aveva in tempo reale. Nello specifico, a 32 fumatori provenienti da tutto il mondo vennero mostrate delle immagini riportanti gli avvisi per la salute riportati sui pacchetti delle sigarette. Molti degli intervistati, al momento del test, dichiararono che quegli avvisi – quelle ‘minacce’ – li colpivano parecchio, e che li spingevano lontani dal tabacco. I risultati della risonanza, però, affermavano piuttosto il contrario. E non solo quelle avvertenze, a guardare i risultati delle scansioni, non facevano effettivamente diminuire la loro voglia di fumare: le immagini mostravano al contrario che quelle immagini facevano invece aumentare il desiderio di fumare.

Questo primo esempio, dunque, ci mostra che non sempre quello che diciamo – o persino che pensiamo – è effettivamente il riflesso di quanto accade nel nostro cervello. Questo caso specifico, tra l’altro, dimostra anche che, da un certo punto di vista, sono stati spesi inutilmente miliardi e miliardi di euro per delle campagne antifumo che, in realtà, sembrerebbero aver favorito – almeno in parte – le compagnie del tabacco.

Vuoi sapere come e perché, in realtà, nessun consumatore in realtà sa perché acquista quello che acquista, e non qualcos’altro? Ecco tutti i motivi riportati in Neuromarketing, capitolo dopo capitolo:

1)Le emozioni hanno la meglio

Prima di tutto – come dovresti già sapere se hai letto un altro mio post dedicato a Pensieri lenti e veloci di Kahneman – bisogna sottolineare il fatto che non pensiamo in modo razionale quanto vorremmo. Anzi, le emozioni offuscano grandemente le nostre decisioni, e lo fanno in buona parte a livello del subconscio.

Un esempio di quanto le emozioni possano giocare dei brutti scherzi ci arriva dritto dritto da uno studio della Princeton University. Qui, per testare le reazioni di fronte a delle ricompense a breve termine e a delle ricompense ritardate, sono stati proposti al pubblico dei voucher da 15 dollari da ricevere immediatamente oppure, in alternativa, dei voucher da 20 dollari da ricevere dopo due settimane. Razionalmente, si capisce subito che la seconda opzione rappresenta l’affare più vantaggioso. 20 è maggiore di 15, è la matematica a dircelo: non è una questione di opinioni. Non ci sono dubbi. Ma la matematica può poco contro le emozioni, e questo è dimostrato dal fatto che la maggior parte delle persone, investite da un’ondata di entusiasmo per questa inaspettata elargizione, scelsero il voucher da 15 dollari.

2) Il Product placement funziona solo se è immerso alla perfezione all’interno di uno show

Un tempo gli spot televisivi avevano un’efficacia pazzesca. Ti basti sapere che, nel 1965, il consumatore medio era in grado di ricordare il 34% degli spot televisivi, e li sapeva anche collegare ad un brand particolare. Negli anni Duemila, bombardati come siamo da pubblicità, questo risultato è impossibile da replicare. La pubblicità ci passa di fronte senza che ce ne accorgiamo, e quindi in modo pressoché inutile. E se un tempo le pubblicità televisive stesse costituivano un momento di godimento – noi italiani non possiamo che pensare al Carosello – oggi sono percepite come qualcosa di noioso e di monotono. Non a caso, durante gli stacchi pubblicitari, gli spettatori vanno in bagno, cambiano canale, si addormentano, si mettono allo smartphone e via dicendo. Ecco perché, specialmente negli ultimi anni, si cerca di fare del buon Product Placement all’interno dei programmi televisivi. Il distributore di Coca-Cola nell’autolavaggio di Breaking Bad, la Hyundai sempre pulite guidate nell’apocalisse zombie di The Walkind Dead, il riso Acquerello in Masterchef Italia, sono tutti esempi di Product placement. Ma funziona davvero sempre?

Se lo sono domandati degli studiosi che, per trovare una risposta, hanno testato tre brand sponsorizzati all’interno del famoso show American Idol – un talent show statunitense – ovvero Coca Cola, Cingular e Ford. Il più rappresentato era Coca Cola: la bevanda era bevuta dai giudici che mostravano la bottiglia in modo esplicito, ma non è tutto qui. Il divano centrale ricordava infatti la forma e i colori della classica bottiglia di Coca Cola. Poi c’era Cingular – quella che adesso si chiama AT&T, la seconda compagnia mobile degli USA – che veniva citata ogni volta che veniva aperto e chiuso il voto da casa; infine, c’era Ford, che veniva sponsorizzato durante le pause.

Per condurre l’esperimento, i ricercatori hanno collegato i partecipanti ad un dispositivo SST (una tipologia particolare di elettroencefalogramma); quindi hanno mostrato loro 20 loghi famosi, tra i quali quelli dei tre brand sopra citati. Poi i volontari hanno dovuto visionare una puntata di American Idol e un episodio qualsiasi di uno show casuale – a mo’ di controllo. A questo punto si è arrivati al test vero e proprio. Quali di quei brand erano rimasti impressi maggiormente nella memoria dei volontari? Ebbene, Coca Coca e Cingular venivano ricordati alla perfezione, mentre Ford… beh, questo marchio era ricordato meno dopo aver guardato lo show rispetto a quanto accadeva prima. Averlo quindi visto nelle pause pubblicitarie, come della semplice pubblicità, lo aveva fatto ‘rimpicciolire’ nella mente dei partecipanti. Insomma, quelli della Ford avrebbero potuto risparmiare una bella sommetta e, allo stesso tempo, raggiungere un risultato migliore.

Di certo questo risultato non va sottovalutato: la memoria che i consumatori hanno di un brand, come afferma Lindstrom in Neuromarketing, è senza ombra di dubbio la più rilevante e affidabile misurazione dell’efficacia di una pubblicità.

3) I messaggi subliminali funzionano davvero

Sì, lo so io, lo sai tu e lo sa anche Lindstrom: i messaggi subliminali non godono di buona fama, ed è giusto che sia così, per il nostro bene e per il nostro equilibrio psicologico. Ma la loro efficacia ci aiuta a capire qualcosa di molto importante per comprendere appieno il nostro cervello e quello dei consumatori.

Un gruppo di persone anziane, di età compresa tra i 60 e gli 85 anni, è stato diviso in due sotto-gruppi: il primo ha dovuto giocare con un videogame che riportava sullo schermo delle parole ‘positive’ (come ‘esperto’, ‘saggio’ e via dicendo) mentre il secondo sotto-gruppo ha dovuto invece giocare con una versione del videogioco che mostrava termini ‘negativi’ (‘vecchio’, ‘malato’, etc). Una volta terminata questa prima fase del test, i ricercatori hanno misurato l’andatura dei partecipanti, scoprendo che quelli che avevano giocato con il primo videogame (quello delle parole positive) avevano un passo più agile, veloce e leggero rispetto ai partecipanti del secondo gruppo, che invece tendevano a trascinare maggiormente i piedi.

Un altro esperimento simile ha mostrato a dei partecipanti alcuni millisecondi di una faccia triste o di una faccia sorridente prima di versarsi e pagare un drink. Le persone che avevano visto una faccia sorridente erano portate a riempire di più il bicchiere e quindi a pagare quasi il doppio di chi, invece, aveva visto la faccia triste.

Questo fenomeno, che sta per l’appunto alla base dell’efficacia dei messaggi subliminali, si chiama ‘emozione inconsapevole’. E no, non ti sto dicendo che devi utilizzare questa informazione per riempire il tuo sito o il tuo e-commerce di messaggi subliminali – non è certo questo lo scopo del mio riassunto di Neuromarketing. No, voglio solo che tu capisca che i nostri cervelli sono in grado di ricordare e di richiamare un’immagine ancora prima che noi stessi riusciamo a capire cosa abbiamo visto. Insomma, il nostro cervello sa delle cose che non condivide con noi. Allo stesso modo, il nostro cervello ‘decide’ (se così si può dire) di acquistare qualcosa ancora prima che noi abbiamo realizzato di aver preso questa ‘decisione’.

4) I loghi non funzionano più

Prima abbiamo parlato dei loghi. Ma siamo davvero convinti che ancora oggi quelle grafiche funzionino come funzionavano decenni fa? Secondo Lindstrom, i loghi sono ormai morti, e possono persino arrivare in certi casi a minacciare le vendite dei loro stessi prodotti. Questo può accadere, secondo l’esperto di Neuromarketing, allorquando i loghi sono troppo vistosi, troppo sgargianti, palesando al consumatore il loro scopo … quello, per l’appunto, di spingerlo ad acquistare un prodotto oppure un servizio. Lo ripeto un’altra volta: quando un consumatore si rende conto di essere davanti ad una pubblicità, quando questa è troppo palese, beh, la sua efficacia ne esce molto incrinata.

Per avere effetto, invece, le pubblicità devono essere sottili: in questo modo si può avere un impatto positivo. Lo stesso vale anche per i loghi. Non devono essere troppo palesi, troppo riconoscibili, troppo espliciti. Pensa per esempio alla Marlboro. Di certo il loro logo non passa inosservato, con quella scritta nera, quel font inconfondibile, quella combinazione di colori. Per questo il brand ha iniziato a utilizzare di volta in volta un solo elemento della propria immagine nei gadget e nei cartelloni pubblicitari: un portacenere bianco e rosso riporta al brand automaticamente, senza usare il logo completo, così come un divano con la stessa grafica – ma senza scritta – accenderà una connessione nella mente del fumatore. Il tutto, ovviamente, senza utilizzare il logo esplicito, e senza dunque mettere in guardia il consumatore.

Nel 2008, quando Lindstrom scrisse Neuromarketing/Buyology, oltre a Marlboro, anche Ralph Lauren, Coca-Cola e Abercrombie & Fitch avevano iniziato ad usare questa particolare tecnica. Oggi i brand che la padroneggiano non si contano.

5) I rituali e le superstizioni ci aiutano a costruire un po’ di senso in questo mondo frenetico e apparentemente casuale

Cosa sono, in fondo in fondo, i rituali? Beh, rappresentano il nostro tentativo di dare senso a – e di prendere il controllo su – quello che ci accade intorno. Non camminiamo sotto le scale, di tanto in tanto tocchiamo ferro, mimiamo le corna con la mano ci buttiamo il sale dietro alle spalle, e tutto questo perché tali gesti ci danno l’illusione di poter influenzare il corso degli eventi. Ed è da questa attitudine irrazionale che, da un punto di vista esterno, nascono le superstizioni e le religioni. E sì, anche la lealtà verso i brand.

Pensaci un po’: i consumatori hanno un profondo senso di lealtà verso uno o più brand: gli pneumatici, il caffè, la pasta, i biscotti, questi acquisti si fanno spesso in modo religioso, senza mai discostarsi dalle proprie abitudini. I brand sono al corrente di questa ‘ritualità’, e la sfruttano a loro favore, creando per l’appunto dei rituali condivisi con i consumatori (Lidstrom a questo punto cita il caso dei biscotti Oreo e della ritualità creata attraverso le campagne pubblicitarie della produttrice Nabisco). Ma noi potremmo citare alcune tra le più famose marche di caffè, per non parlare della Nutella (gli addetti di comunicazione del brand, come è noto, non riescono a immaginare ‘un mondo senza Nutella’ – e dici poco).

6) I brand possono diventare simili a delle religioni, con i loro propri rituali

Da quanto affermato sopra si può dedurre che, in qualche misura, i brand possono diventare qualcosa di simile ad una religione. Ma una cosa è dedurlo, tutta un’altra cosa è dimostrarlo.

Per farlo dei ricercatori hanno effettuato delle SST a quindici suore, ponendo loro due differenti domande. Nel primo caso, alle religiose fu chiesto di rivivere la loro più profonda esperienza religiosa. Dopodiché, alle suore fu chiesto di riportare alla memoria un’esperienza emotiva che avevano vissuto insieme a un altro essere umano. In entrambi i casi, furono analizzate meticolosamente le aree coinvolte del cervello.

La seconda parte dello studio ha invece coinvolto 65 uomini, ai quali dapprima fu chiesto di valutare la propria spiritualità da 1 a 10; poi furono mostrate loro delle immagini di brand forti e di brand deboli, mischiate insieme a immagini religiose e sportive. Le parti del cervello attivate dallo sport erano le stesse di quelle attivate dalla religione? E per quanto riguarda i brand?

Ebbene, le immagini SST rivelarono che l’area attivata dalle suore mentre pensavano a uno scenario religioso era del tutto differente rispetto a quella attivata dal ricordo di un’esperienza emotiva vissuta con un’altra persona. Le immagini di brand ‘forti’ e di sport, invece, attivavano la medesima area interessata dalle immagini religiose. Insomma, il modo in cui il cervello reagisce di fronte a questi tre elementi così diversi è in realtà esattamente il medesimo, anche se va detto che il più alto livello di attività è stato correlato ai brand – il che ha senso, in quanto quando si parla di prodotti si ha pur sempre a che fare con delle scelte, e quindi con dei ragionamenti.

Una volta che i grandi marchi hanno capito che l’attività cerebrale innescata dai brand è simile a quella attivata dalle religioni, beh, ovviamente hanno cercato di sfruttare la cosa. È un caso che la compagnia telefonica Vodafone, nel suo servizio di messaggistica quotidiano, abbia scelto di inserire un consistente numero di citazioni di Papa Giovanni Paolo II?

Un altro aneddoto interessante sulla fiducia – di più, sulla fede – che si crea in un consumatore di fronte a un brand ci viene dal curioso caso dello shampoo Unilever. Hai mai sentito parlare di una sostanza chiamata X9 Factor? Ebbene, sappi che nessuno ne aveva mai sentito parlare, almeno fino a quando un impiegato della Unilever decise di riportare questo ingrediente sull’etichetta di uno shampoo. Sta di fatto che nessuno se ne accorse in tempo, e milioni di bottigliette con X9 Factor stampato in bella vista vennero immesse sul mercato. Poco dopo Unilever corresse l’errore, e mise sul mercato degli shampoo con l’etichetta corretta, cancellando quella sostanza inesistente e misteriosa. Vuoi sapere cosa accadde? Ebbene, la compagnia ricevette migliaia di lamentele da parte dei clienti. Non solo, le vendite diminuirono. Nessuno dei clienti poteva ovviamente sapere cosa fosse l’ingrediente X9 Factor, eppure in molti arrivarono a dichiarare con una certa stizza che il ‘nuovo’ shampoo non funzionava più, proprio perché mancava questo essenziale ingrediente!

Per pensare a dei brand che hanno preso sul serio il loro ruolo religioso non possiamo che pensare a marchi come McDonald’s e Nike. Quanto a simboli e rituali universalmente riconosciuti, infatti, quei colossi sono praticamente imbattibili.

7) Utilizzare diversi sensi per far memorizzare un brand

La vista e l’olfatto stimolano il nostro cervello nello stesso modo, ma non è detto che le pubblicità visuali siano migliori. Nello specifico, Lindstrom dimostra come le immagini siano più efficaci quando sono combinate con dei suoni e dei profumi, così da offrire un’esperienza più completa del prodotto. E ci sono brand che hanno imparato a utilizzare in modo sagace un’ampia gamma di sensi: i punti di vendita Samsung hanno sperimentato il profumo del melone invernale per aumentare le vendite, e nei British Airways Business Lounge si sente il profumo di prato, per aumentare la sensazione di ritrovarsi in un ambiente piacevole. Nei supermercati, poi, non manca quasi mai la musica. La scelta non è casuale, e anzi, con determinati brani musicali si possono influenzare acquisti specifici: come afferma Lindstrom, con della musica francese si può indurre i clienti ad acquistare del vino dello stesso Paese.

8) Una soluzione per il lancio dei prodotti

Non è una novità: le imprese non sono per nulla brave quando si tratta di predire il successo che avranno i loro nuovi prodotti una volta lanciati sul mercato. L’ottimismo regna solitamente sovrano: quando si lancia un prodotto, infatti, lo si fa con la convinzione – non la certezza, certo – che questo avrà un successo tale da ripagarne i costi e far guadagnare l’azienda. Altrimenti, perché lanciarlo?

Le aspettative del lancio sono dunque sempre buone, ma il risultato non è sempre positivo, anzi, non lo è quasi mai, tanto è vero che 8 lanci su 10 sono dei fallimenti. E questo nonostante i tanti test condotti sui consumatori durante lo sviluppo del prodotto. Ma davvero non si può fare di più e di meglio? E e fosse proprio il neuromarketing a poterci aiutare anche da questo punto di vista?

Per spiegare quanto il neuromarketing può essere utile per lo sviluppo e il lancio di un prodotto Lindstrom riporta l’esempio di uno studio effettuato negli Stati Unti su 4 gruppi composti da 50 uomini e donne, rappresentanti dei campioni generali della popolazione statunitense. L’obiettivo era predire il successo del lancio sulle tv USA di uno show britannico, denominato Quizmania. Per farlo ogni partecipante venne collegato ad un dispositivo di scansione SST, così da analizzare le reazioni a livello neurologico. Come pietra di paragone, 2 gruppi dovettero guardare – nella stessa sessione di Quizmania – uno show che non ebbe successo negli USA, ovvero The Swan, mentre gli altri due gruppi dovettero guardare uno show di successo, ovvero How to clean your House. Una volta visionati i due show, ai 4 gruppi venne somministrato un test cartaceo, che sarebbe poi stato confrontato con le reazioni registrate durante le scansioni SST.

È interessante che, a livello del questionario, l’apprezzamento dello show ‘fallito’ era del tutto simile a quello dello show di successo. Guardando però le scansioni cerebrali, la differenza tra i due format era di nuovo palese. Questo gap è stato fondamentale per i ricercatori, i quali hanno così potuto capire che effettivamente i risultati SST riflettevano la realtà, molto più di quanto facevano invece i questionari cartacei. Il dato ancora più interessante, però, arrivò al momento del nuovo quiz britannico, coloratissimo, dinamico, rumoroso e martellante. Sul test cartaceo, la maggior parte dei partecipanti riportò il disprezzo per questo programma, affermando che non lo avrebbero guardato mai più. D’altro canto, invece, le scansioni cerebrali raccontavano tutta un’altra storia. Al loro cervello, infatti, il format britannico era piaciuto, e pure parecchio.

Ecco, questo è il potere del neuromarketing, e soprattutto, queste sono le sue potenzialità. Niente male, vero?

Andiamo avanti con il riassunto di Neuromarketing: ci sono infatti altri due capitoli da scoprire.

9) Quanto potere hanno i riferimenti sessuali nella promozione di un brand?

I calendari degli pneumatici, ma anche le pubblicità della birra, dei deodoranti, delle sigarette, delle scarpe e praticamente di qualsiasi altro prodotto e servizio sul mercato: non esiste un settore in cui non sia stato usato il sesso, in modo più o meno velato, per fare della promozione. Ma questo, nel nuovo millennio, funziona ancora?

Per scoprirlo, un esperimento ha coinvolto 60 partecipanti, i quali sono stati divisi in due gruppi. Il primo ha guardato un episodio di Sex and the City, nel quale i protagonisti parlavano delle proprie prodezze a letto, mentre il secondo ha visionato un episodio di Malcolm in the Middle (in Italia semplicemente Malcolm), senza riferimenti sessuali. Dopodiché, un gruppo per ogni categoria ha guardato delle pubblicità con dei riferimenti di carattere sessuale, mentre gli altri due gruppi delle due categorie hanno visionato delle pubblicità completamente prive di allusioni di questo tipo.

L’intento dell’esperimento, come avrai capito, era quello di scoprire se e quanto il sesso o le allusioni a quella sfera aiutano i consumatori a ricordare un prodotto sponsorizzato. Ebbene, ti potrà stupire sapere che quelli che avevano visionato le pubblicità con dei riferimenti alla sfera sessuale non ricordavano i prodotti pubblicizzati più di quanto avvenisse negli altri gruppi. Anzi, i primi ricordavano persino meno dei secondi, in quanto le allusioni sessuali, evidentemente, finivano per distogliere la loro attenzione da quello che la pubblicità voleva effettivamente vendere.

Un altro esperimento, ancora più interessante, è stato fatto nel New England su 400 volontari. A tutti quanti è stata mostrata un’ampia serie di immagini promozionali, con i più diversi gradi di riferimenti sessuali (da pubblicità esplicitamente ammiccanti ad ads del tutto prive di riferimenti alla sfera sessuale). Per ogni immagine i partecipanti dovevano cliccare con il mouse l’area che per prima catturava la loro attenzione.

Come è facile immaginare, la maggior parte degli uomini vedeva per prima cosa le curve dell’eventuale donna ritratta. Non deve dunque stupire troppo il fatto che solo il 9,8% degli uomini intervistati si ricordava cosa quelle immagini volevano sponsorizzare. Per quanto riguarda le pubblicità senza nessuna allusione sessuale, il prodotto o il servizio sponsorizzato veniva invece ricordato nel 20% dei casi (poco più del doppio). Da sottolineare che i risultati sono stati del tutto simili anche nel caso del pubblico femminile, anche se va evidenziato il fatto che le donne, in generale, non apprezzano le campagne pubblicitarie che mostrano ragazze straordinariamente perfette: quelle immagini finiscono infatti per creare delle insicurezze che non possono certamente concorrere alla buona riuscita della campagna promozionale. Da qui, dunque, deriva il grande successo per le campagne pubblicitarie lanciate dalla linea Dove di detergenti per il corpo, dedicate di volta in volta alla ‘bellezza naturale’.

Non è tutto qui: il 53% dei consumatori è più incline ad acquistare dei prodotti che sono promossi attraverso immagini e simboli di ‘amore’ piuttosto che di ‘sesso’. In definitiva, Lindstrom conclude che ormai, in questi anni, il sesso è stato talmente abusato e commercializzato nel settore pubblicitario da aver perso il suo valore principale, ovvero quello di scioccare e quindi intrigare il pubblico.

10) I neuroni specchio possono essere il futuro dell’advertising

Non ho dubbi: questo riassunto di Marketing non è il primo luogo in cui senti parlare di neuroni specchio. Parliamo infatti di quella classe di neuroni che risuona le azioni altrui nel nostro cervello, proprio come se fossimo noi a compierle. Di fatto è grazie al nostro sistema a specchio che riusciamo a capire così agevolmente cosa stanno facendo le altre persone, ma anche cosa provano. E non solo: i neuroni specchio ci permettono anche di imparare per imitazione in modo molto veloce (secondo Vilayanur Ramachandran, questi neuroni potrebbero persino essere alla base dell’intera cultura degli esseri umani).

E davvero il mondo dell’advertising intende lasciarsi scappare l’opportunità offerta dai neuroni specchio? Secondo Lindstrom, questi costituiscono il futuro del mondo della pubblicità. Pensaci un po’: quando il protagonista di un film che stai guardando piange, tu ti senti triste. Quando il capocannoniere della tua squadra segna, ti senti entusiasta. Non è forse il caso di utilizzare queste connessioni anche nel mondo della pubblicità? Certo, le mode e i trend poggiano già oggi sui neuroni specchio, magari non sapendolo: tutti hanno gli ultimi modelli iPhone o Samsung perché anche gli altri li possiedono, e quindi hanno ‘specchiato’ le loro azioni. Si può fare di più, costruendo delle pubblicità ad hoc per attivare i neuroni specchio? (E in quale misura sarebbe lecito ed etico farlo?

Linstrom, poi, parla anche della dopamina, ovvero di quel neurotrasmettitore che ci porta delle ondate di felicità e di euforia: non va certo dimenticato che durante lo shopping il nostro cervello produce dopamina a fiumi, facendoci sentire felici per aver acquistato qualcosa, portandoci talvolta a comprare dei prodotti che in realtà non potremmo nemmeno permetterci – perlomeno da un punto di vista eminentemente razionale.

Conclusione

In questo riassunto di Marketing di Lindstrom sono riportati tutti i concetti principali del libro, ma di certo aver letto questo post non è uguale al gustarsi il libro da cima a fondo. Sono però abbastanza fiducioso: secondo me, ora che ho socchiuso la porta e hai dato un’occhiata veloce a questo mondo, vorrai forse spalancare l’uscio e scoprire ancora di più, acquistando questo capolavoro di Lindstrom. Capirai dunque che le nostre decisioni di acquisto non sono poggiate su pensieri razionali (che anzi, incidono mediamente solo sul 10% delle nostre azioni) ma su stimoli irrazionali, a partire dalle emozioni. Capirai ancora meglio perché il Product placement funziona solo se fatto a regola d’arte, e perché, invece, i messaggi subliminali, pur essendo il male, sono incredibilmente efficaci. E ancora, scoprirai nel dettaglio il legame tra religione e branding, tra progresso tecnologico ed efficacia dell’advertising, e via dicendo, molto più in profondità di quanto hai potuto fare in questa pagina online.

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